Appartenente a un ambiente borghese ebraico di primo Novecento, innovatore e cosmopolita, Eugenia Vitali rappresenta un modello di donna colta, letterata e politicamente impegnata. È una figura che segue il solco di altre del passato, facendosi mediatrice culturale sul territorio veronese, grazie a un’attività di salotto e teatro che Eugenia Vitali svolge all’interno della sua villa a San Floriano. È un’attività di legittimazione femminile, che si accorda alle sue tendenze emancipazioniste: riconosce infatti una funzione educativa al teatro, come quello di autori come Ibsen, che secondo lei mette in luce “l’eccezionalità della donna nuova”. Nella villa vengono messe in scena numerose rappresentazioni che vedono Eugenia Vitali come protagonista e talvolta regista: nel 1905 Antigone di Sofocle, mentre l’anno successivo Agamennone e Coefore di Eschilo. La sua attività teatrale riceve l’approvazione di Gabriele d’Annunzio e la collaborazione del pittore Angelo Dall’Oca Bianca nelle scenografie, e attira inoltre molti veronesi illustri dell’epoca, tra cui Achille Forti, Luigi Messedaglia, e il poeta Berto Barbarani.
Nell’ambito della sua carriera letteraria, Eugenia Vitali entra nel 1907 alla Società Letteraria, insieme ad altre tre signore veronesi. Le donne, prima non incluse se non formalmente in rari casi, come Silvia Curtoni Verza, vengono ora riconosciute come membri effettivi. È un passo importante, che garantisce loro pieni diritti senza distinzioni di genere, ma che rimarrà un processo graduale: passeranno infatti parecchi decenni prima che le donne prendano possesso dei loro diritti in quanto membri, e che i loro numeri crescano all’interno della Società. Una libertà importante, però, da subito sfruttata da Eugenia Vitali e dalle compagne, è l’accesso ai documenti a prestito, che prima le donne potevano consultare solamente per vie indirette, tramite i membri familiari.
Eugenia Vitali coltiva una florida attività di critica letteraria, interessandosi ad autori come Guy de Maupassant e drammaturghi quali Henrik Ibsen e Bernard Shaw. A questo ambito si limiterà la sua scrittura con l’avvento del fascismo: negli anni ’20 collabora come editorialista e critica letteraria con il giornale “L’Adige”, con posizioni apertamente critiche nei confronti del Manifesto degl’intellettuali italiani fascisti del ministro Giovanni Gentile, definendo il vero intellettuale come spirito libero “fedele a se stesso per vivere l’armonia del suo pensiero nello spazio e nel tempo.”
«Il procedere della scienza, specialmente nel ramo affine all’igiene sociale, diventa oggi una eventuale e possibile diminuzione delle piaghe sociali» afferma a proposito dei suoi studi sulla letteratura, la poesia e la filosofia. Ma ama anche il teatro, in particolare Ibsen, che ritiene «il solo realizzatore del verbo femminile nella sua più alta espressione d’indipendenza spirituale. Colui che più di ogni altr oha colto l’urgenza nella donna di una maggiore indipendenza morale e sociale perché oggi ella si accorge di vivere, sente di essere un pensiero, una energia, un ritmo, e come tale chiede rispetto per le sue azioni, dignità per il suo lavoro, sia questo lavoro famigliare, industriale o intellettivo»